Il nuovo “Deal” europeo si fa strada fra il “restyling” Esg e il riesame sulle tappe della transizione

“Omnibus Simplification I” e “Clean Industrial Deal”, cioè l’ultima frontiera dell’impegno disciplinare di Bruxelles tesa a ridisegnare i pesanti impegni dei settori economici nei confronti della sostenibilità.

Il primo “Omnibus” (ne seguiranno altri due) incide su: direttiva Csrd (2022/2464/Ue) relativa al reporting di sostenibilità; direttiva Csddd (2024/1760/Ue) sulla due diligence delle imprese; Regolamento 2020/852/Ue sulla tassonomia; Regolamento 2023/956/Ue sul meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere dei programmi di investimento europei (cd. Cbam).

L’“Omnibus” incide anche sui programmi di investimento europei prevedendo, tra l’altro, di agevolare il contributo degli Stati membri, sostenere le proprie imprese e mobilitare investimenti privati.

Con il “Clean Industrial Deal”, invece, la Ue accende i fari sul “Green Deal” e promuove la competitività dell’industria europea provando a riparare i danni della deindustrializzazione seguita ad una transizione troppo accelerata, disegnata come se una pandemia e due guerre non fossero mai esistite.

L’obiettivo non è in discussione, quello che preoccupa è il modo per raggiungerlo.

Questo nuovo “Deal” si propone di accelerare la decarbonizzazione e garantire il futuro dell’industria manifatturiera in Europa, mantenendo fermo l’impegno alla neutralità climatica entro il 2050. L’Accordo non dimentica l’economia circolare tesa anche a ridurre la dipendenza dai fornitori esteri di materie prime. Questi i comparti industriali toccati dal “Deal”: industria automobilistica, acciaio e metalli, industria chimica e tecnologie pulite.

La revisione è potente, però era più che prevedibile per molte ragioni, prima fra tutte (come abbiamo scritto altre volte) l’arroganza testarda di voler trasformare l’astrazione in regola cogente mediante la convivenza forzosa tra un’Europa globalizzata (cioè spalancata al commercio internazionale) e l’imposizione di “standard” interni con costi elevatissimi.

Una convivenza impossibile dove il “Green Deal” europeo è intervenuto (con la mole ideologica che lo accompagna) mostrandosi per quello che è: un tentativo di coprire i disastri della concorrenza sleale creata dalla globalizzazione selvaggia con le produzioni allocate in India, Cina e resto del mondo, sideralmente lontani dai limiti ambientali. E dai loro corollari sanzionatori. Tutto questo ha scaricato costi enormi sull’industria europea e impoverito il potere d’acquisto dell’euro (e dei salari che in euro sono corrisposti).

Nei moltissimi regolamenti europei (divenuti ormai lo strumento principe della legislazione sovranazionale) si scorge una complessità particolare della stesura: moltissimi articoli che provano a chiarire tutto ma, proprio per questo, lasciano sempre sacche di irrisolto. I preamboli sono quasi più lunghi dell’articolato.

E se è vero che l’esigenza di legiferare meglio nasce dalla necessità di fare chiarezza, va detto che il tecnocratico linguaggio europeo spesso non assolve a questa funzione, generando piuttosto chiaroscuri compilatori e ipertrofia legislativa. In questo somigliando, l’agire europeo, moltissimo a quello nazionale, dove manca una razionalità tecnica rapportata tra fini e mezzi, che abbia il richiesto carattere di istruzione comunicata, capace anche di ricreare il patto sociale tra chi governa e chi è governato.

Ma questo ormai è un vano parlare se si pensa che già Dante, nel VI Canto del Paradiso, fece dire (addirittura) a Giustiniano che “d’entro le leggi trassi il troppo e il vano”.