Transizione ecologica, la seconda possibilità
“Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo: digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori , biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra, sono diverse facce di una sfida poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno tutte le azioni umane”. Così il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel suo lungo discorso per chiedere, ottenendola, la fiducia al Senato lo scorso 16 febbraio.
Parole intense e garbate che tuttavia sferzano l’immaginazione restituendo un’ipotesi di “fare” nell’accezione globale delle componenti della nostra contemporaneità. Scongiurando così l’immobilismo fisico e mentale di una certa idea di protezione fatta di mera astensione e di decrescita felice.
La transizione ecologica deve, fondamentalmente, rilocalizzare produzione e consumo e quindi l’economia. Questo significa ripensare i territori e la loro governance, i legami sociali, la capacità di fare.
Per questo la transizione ecologica non equivale allo sviluppo sostenibile, ma è un percorso verso la sua realizzazione.
Transizione ecologica significa anche una società di beni comuni dove il credito diventa il mezzo per la tutela dell’ambiente poiché impiegato, ad esempio, per il rinnovamento termico degli edifici o per la modifica della mobilità dove l’innovazione tecnologica apre la possibilità e diventa la precondizione di un nuovo accadere.
Insomma, con poche e comprensibili parole, il punto di arrivo è tracciato unitamente ai modi per farlo: una strategia, un piano e non più un vuoto pneumatico di idee e di capacità mascherato da possente azione di tutela. Era solo la proiezione estetica dell’altalena emotiva di chi fa finta di pensare.
Una (in)azione che ha portato a risultati a dir poco allarmanti come i 640 progetti in attesa di Valutazione di impatto ambientale presso la competente commissione del Ministero dell’Ambiente (il Sole 24 Ore del 19 febbraio 2021). Del resto, poiché la politica è l’arte del possibile, deve fare fronte a quanto è necessario. Ma così non è stato; forse perché non ha compreso che non c’è una minaccia esterna; il nemico e la vittima sono interni e siamo noi tutti. Per questo il diritto dell’ambiente, figlio della politica, è così inefficace per la tutela, nonostante sia così repressivo.
L’abuso di assenzio nell’800 portò ai blu bellissimi ma allucinati di Van Gogh, l’abuso di immobilismo ha portato a territori intatti ma ad infrastrutture inesistenti. Non è un buon viatico per il prossimo futuro, dove le opere finanziate con il Recovery plan sembra debbano avere un previo imprimatur ambientale.
E ora, che dobbiamo riavvolgere il filo del nostro esistere in una rinnovata urgenza di meccanismi di proiezione e di identificazione con le cose, i mestieri e i territori, dobbiamo ricomprendere come occuparci dei problemi fondamentali della condizione umana.
Ecco allora che ci coglie tutti un desiderio quasi giovanile che travolge ed emoziona insieme. Insomma una specie di riarmo morale perché “La vita offre sempre una seconda possibilità. Si chiama domani” (Dylan Thomas).