Dai limiti dello sviluppo allo sviluppo dei limiti: il monito del Club di Roma e il pensiero a lungo termine del “buon antenato”
Era il 1972 quando il Club di Roma pubblicava il libro “I limiti dello sviluppo” e ci metteva in guardia sulla deriva della crescita a tutti i costi. Ma avremmo dovuto ascoltare di più e meglio perché il messaggio era chiaro: l’umanità andava verso un punto di non ritorno.
Quel punto è qui. Molti dei limiti planetari di cui si parlava cinquant’anni fa sono stati superati. L’aumento esponenziale della popolazione e dei consumi, l’inquinamento e la riduzione delle risorse naturali, accrescono le disuguaglianze e minano la stabilità sociale. Sembra davvero troppo tardi per trovare una via d’uscita. Forse perché abbiamo sempre pensato al futuro come un buco nero dove abbancare debito pubblico e scorie nucleari, rischi climatici e da sovrappopolazione. Un “non luogo” che, non essendo di nessuno, è diventato oggetto di diritti. Il modello economico che conosciamo non è assolutamente adeguato alla realtà odierna e va cambiato. Una realtà figlia legittima del pensiero a breve termine: qui e ora.
Invece occorre passare al pensiero a lungo termine. “L’umanità ha sempre avuto l’innata capacità di pianificare e intraprendere azioni che risuoneranno per decenni, secoli, persino millenni a venire. La necessità di attingere alla nostra abilità di pensare a lungo termine non è mai stata più urgente. E allora cosa dobbiamo fare? Dobbiamo essere dei buoni antenati, è il momento di accendere il nostro pensiero a lungo termine”.
Con queste parole Edizioni Ambiente presenta il bellissimo saggio “Come essere un buon antenato” di Roman Krzanaric che pone a confronto il pensiero a breve termine (fondato sulle ricompense istantanee) con quello a lungo termine (che fa sue la pianificazione e la strategia). Un conflitto che deve essere risolto a favore del secondo per portarci oltre e fuori le crisi ambientali, sociali e sanitarie che stiamo vivendo.
Un traguardo possibile e del quale il risanamento dei territori offesi dall’invasività dell’agire umano è l’azione più evidente. Farli rinascere e tenerli vivi perché sono capitali pazienti e silenziosi il cui risorgere comporta la ricrescita dei sistemi economici, sociali e ambientali locali e produce benessere diffuso. Non è più possibile mentire a noi stessi, pur di sopravvivere alle nostre scelte sbagliate.
Attraverso il risanamento dei territori si fa nuovamente strada la fiducia tra privati e pubblica amministrazione, dove tutti ritroviamo anche la forza del paesaggio, il valore del suo uso e della sua conservazione. Il nostro straordinario patrimonio. Affinché il tempo futuro non diventi un’ode malinconica al tempo che smette di tornare.
Il problema senza nome emerso negli anni ‘60 era la questione femminile e il senso di invisibilità e impotenza di milioni di donne. Poi qualcosa è cambiato; nessuno sapeva cosa sarebbe successo ma qualcosa doveva essere fatto. Era ineluttabile. E anche se l’opera non è ancora compiuta, la strada è tracciata e non è revocabile. Risanare i territori e avere cura di quelli ancora intatti (o quasi) mostra il nuovo percorso ineluttabile verso l’argine alla questione ambientale, mediante un modello di sviluppo diverso che fa suo il pensiero a lungo termine e che si prende cura della manutenzione evolutiva dei luoghi e delle persone. E questo è lo sviluppo dei limiti.
Perché è dai nostri luoghi che nasce la necessità di lasciar sedimentare le cose per riuscire a comprenderle, l’urgenza di ascoltare la vita che a volte si rompe ma sempre si ricompone. E invece nelle povere proteste dei vandali eco-illogici torna ripetutamente e resta addosso l’impressione che non sappiano sempre di cosa parlano, anche quando (in qualche misura) è vero.
C’è in questo una tristezza che spezza il cuore.