“Overtourism” e “Il turismo che non paga”: un anglicismo e un libro per ricordare l’occasione mancata di perdersi senza mai sentirsi fuori rotta

“Overtourism”: il fenomeno che reca con sé l’apparente e allettante promessa di prosperità e vivacità ma che si rivela sempre più come la grave piaga moderna per i territori che ne sono invasi. Un’ulcera contemporanea che si snoda tra le pagine della realtà, delineando scenari di bellezza ferita e di identità svanite.

Città d’arte, borghi sospesi nel tempo e isole remote assalite dal fastidio dei trolley rotolanti: il battito metallico che soffoca il respiro antico della pietra e del mare.

E poi le strade, prima solitarie, ora sono fiumi umani che scorrono senza sosta, trascinando l’effimero: mappe digitali che cancellano la geografia del cuore, bastoni per selfie eretti come scettri in un regno dove l’apparenza si impone sulla memoria. E domande, domande ovunque, sussurrate o gridate, tutte ridotte all’essenziale: “Dove si mangia bene al costo minore?”.

Così, la realtà si sfoglia come una mappa consunta, e del viaggio autentico rimane l’ombra sciatta e sbiadita di un’eco che si perde tra la folla.

Le conseguenze ambientali dell’“overtourism” possono essere significative; si pensa al degrado degli ecosistemi naturali più fragili; all’inquinamento dovuto al maggior volume di rifiuti prodotti; al consumo eccessivo di risorse come acqua ed energia in aree dove sono già scarse; al disturbo della fauna selvatica e all’apporto che l’incremento dei trasporti aerei e terrestri, con l’emissione di gas serra, fornisce al cambiamento climatico.

Affrontare l’“overtourism” richiede politiche di gestione sostenibile del turismo e una maggiore consapevolezza dei viaggiatori.

“Il turismo che non paga” (di Cristina Nadotti – Edizioni Ambiente, Milano 2025) si interroga su cosa accade quando una città diventa “d’arte”, un paese “borgo autentico” e una spiaggia “località instagrammabile”. Cosa succede al territorio e a chi lo abita quando i luoghi diventano turistici? Che impatto ha tutto questo sul patrimonio ambientale e culturale? Del resto, il turismo è la più contraddittoria delle industrie contemporanee. Da opportunità di sviluppo a predazione il passo è breve, dipende dai punti di vista.

Il Saggio affronta questo tema con lucidità spietata. L’Autrice scava sotto la patina dorata delle statistiche economiche per rivelare il costo nascosto del turismo sfrenato: perdita di autenticità, erosione di risorse locali, gentrificazione che esilia i residenti storici. Il luogo si trasforma in vuoto palcoscenico, scenografia per selfie e itinerario preconfezionato.

E gli abitanti sono i nuovi perdenti della storia, i nuovi invisibili; aggrediti dal dolore silenzioso di chi non riconosce più la propria geografia, perdendosi in uno straniante luna park.

In un mondo dove le città si affollano come pagine ingiallite da troppe dita che le toccano, il turismo si srotola come un racconto di eccessi e disarmonie. Ma se osserviamo da un’angolazione diversa, forse scorgiamo una geometria latente: una proporzione simmetrica che attende di essere tracciata tra il viaggiatore e il luogo.

“Il turismo che non paga” non è solo un titolo, ma è anche un invito sottile a riconsiderare il viaggio non come sequenza di tappe, ma come trama di attese e silenzi.

Immaginare di camminare non per conquistare spazi, ma per ascoltare il respiro delle strade, il sussurro delle pietre che narrano storie dimenticate.

Viaggiare diventa allora non un accumulo di timbri sul passaporto, ma una raccolta di emozioni sospese, di incontri che si adagiano nell’anima come frammenti di un mosaico incompiuto. E nel farlo, senza disturbare troppo chi incontriamo lungo il cammino, scopriamo che la bellezza autentica vive proprio lì, in un angolo nascosto, dove ci si può perdere senza mai sentirsi fuori rotta.