Abbandonare il “fast fashion” perché ogni filo intrecciato sulla nostra pelle racconta chi siamo e il mondo che vogliamo abitare
“Si dovrebbe essere un’opera d’arte, o indossarne una”. Così Oscar Wilde ne La filosofia del vestire, dove il tema centrale, come in tutta la sua opera, è la questione del bello per declinare l’estetica del quotidiano. Ma, visto come va il mondo, nessuno di noi è un’opera d’arte. E la quantità di cose da “fast fashion” che affolla i nostri armadi smentisce miseramente il secondo suggerimento di Wilde.
Il “fast fashion” ha trasformato radicalmente il nostro rapporto con l’abbigliamento. Marchi globali impongono mode effimere, producendo capi a basso costo destinati a un rapido ricambio. Tuttavia, dietro l’apparente convenienza si celano costi ambientali e sociali insostenibili.
Che dire, infatti, delle condizioni di lavoro precarie e dello sfruttamento dei lavoratori. È cronaca di pochi giorni fa l’amministrazione giudiziaria scattata per Valentino Bags per un presunto omesso controllo sul caporalato; nel mirino, alcuni opifici cinesi della catena di subfornitura della società del gruppo Valentino. Qui il parallelismo con La condizione umana di André Malraux è obbligatorio: la dignità umana sacrificata sull’altare del profitto.
Frustrazioni camuffate da desiderio per la borsetta fabbricata da qualche poveraccio in giro per il mondo ma qui pagata a prezzi folli, pur di averla. Eccola, riprendendo Oscar Wilde, la differenza tra moda e arte: la moda imbriglia l’individuo in un gusto che non gli appartiene ma che, in modo oscuro, gli è imposto; l’arte, invece, sviluppa il senso della propria individualità e insopprimibile unicità. Questa è la radice del malessere, mentre il “fast fashion” è solo il sintomo. Non ne usciremo, neanche con il migliore degli Epr, il più efficiente dei consorzi, il più avanzato degli ecodesign o l’ecocontributo più performante.
La “moda veloce” non è un affare di stoffe e cuciture, ma una malattia del cuore. Essa si nutre dell’inquietudine umana, dell’ansia perenne di cambiare pelle, come fanno i serpenti quando avvertono l’ombra dell’età che avanza. Ogni nuova collezione – a distanza di settimane, giorni, ore – è solo un’altra preghiera mormorata da chi spera di essere amato, o almeno notato, solo perché ha mutato il colore del vestito. Ma sotto, nel buio di quell’anima assetata, resta lo stesso vuoto di sempre. Così come Madame Bovary cercava nei nastri e nelle sete la carezza che nessun amore le aveva dato, anche ora il consumo è rito disperato, recita collettiva di solitudini travestite.
Erano gli anni Ottanta e Paolo Pietroni scriveva Sotto il vestito niente. Un titolo che era già una profezia. Poi, il cinema lo prese e lo fece diventare un thriller lucido e freddo, firmato Enrico Vanzina. Ambientato nella Milano dell’effimero, incantata e crudele, dove l’apparenza regnava come un dio capriccioso e dietro, ancora una volta, niente. Una trama perfetta per rileggere oggi la storia mitizzata di un “glamour” sbiadito e solo di facciata.
Cosa perdiamo in questo processo? L’identità, la qualità e una connessione autentica con quello che indossiamo. Italo Calvino ne Le città invisibili scrive che “La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano”. E così anche ogni capo dovrebbe contenere una storia, un significato, non essere solo un oggetto transitorio.
Riscoprire un nuovo modo di vestire significa valorizzare la qualità rispetto alla quantità. Significa scegliere abiti realizzati con materiali sostenibili, preferire il “vintage”, supportare artigiani locali. È un ritorno a un’estetica del pensiero, dove ogni scelta riflette la nostra visione del mondo.
La moda può essere un atto di resistenza, un manifesto personale. Indossare un capo realizzato eticamente è un gesto politico, un’affermazione di valori. In un’epoca di crisi climatica e disuguaglianze, il nostro guardaroba può diventare uno spazio di coerenza e bellezza autentica, con gesti concreti e, per una volta, senza tanti schiamazzi.
Abbandonare il “fast fashion” non è solo una decisione legata al gusto, ma un atto che riflette una profonda esigenza interiore, un bisogno etico che dialoga con la nostra identità più autentica. È un invito a riconnettersi con la propria consapevolezza, a percepire l’atto del vestire non come un gesto meccanico, ma come un’espressione intima del sé. L’abito smette di essere maschera fugace per diventare specchio della nostra storia personale e del tempo che viviamo.
Oggi possiamo scegliere abiti che ci definiscono senza nasconderci. Perché ogni filo intrecciato sulla nostra pelle racconta chi siamo e il mondo che vogliamo abitare.