Green Deal, l’Europa ci riprova ma globalizzazione e obblighi “green” unilaterali creano il corto circuito. E poi, chi paga?

I costi della transizione energetica, secondo lo studio del Rousseau Institut francese, da qui al 2050, ammonterebbero a 40.000 miliardi di euro solo per l’Unione Europea, e cioè 1.520 miliardi l’anno, pari al 10% del Pil europeo. Chi paga tutto questo?

Con la rielezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue sembra davvero che i prossimi cinque anni siano ancora interamente dedicati alla transizione energetica ed ecologica.

Nel documento “Orientamenti politici per la prossima Commissione Europea” diffuso sul sito della stessa Commissione ha scritto che va mantenuta “la rotta verso tutti i nostri obiettivi, compresi quelli stabiliti nel Green Deal europeo”.

Una sfida, dove l’Italia, preceduta dalla Germania e seguita dalla Francia, occupa ancora il podio della manifattura europea. Ma la crescita aggressiva di Cina e India si sente. Rispetto al Pil Usa, quello Ue rappresenta solo il 65%. Una caduta verticale e pericolosa che, rispetto ad una resa pressoché equivalente del 2010, ora è come se avesse perso l’apporto di Germania, Francia e Italia.

Dove si radica tutto questo? Nella condotta presuntuosa, esageratamente regolatoria e anti industriale della tecnocrazia e della politica di Bruxelles, ossessionata dalla tutela dei consumatori e dimentica del resto.

In Europa il contrasto all’inquinamento e ai danni al territorio e il perseguimento di un minore dispendio energetico è patrimonio comune e acquisito. La transizione è ineluttabile. Ma se l’Europa la fa da sola e di corsa non ci porterà lontano.

Tuttavia, il Green Deal Ue (con la mole ideologica che si porta dietro) appare come un cerotto messo a coprire i disastri della concorrenza sleale creata dalla globalizzazione selvaggia con le produzioni allocate in Paesi, come India e Cina, che si tengono ben lontani dai limiti ambientali.

Ma non basta, sulle politiche ambientali Bruxelles ha alzato sempre più l’asticella, restringendo limiti, vietando condotte e imponendo sanzioni. Tali politiche hanno scaricato enormi costi sull’industria europea.

Ora (ed era ora) ci si comincia a chiedere se questa Europa può continuare a essere un’area globalizzata (quindi spalancata al commercio internazionale) e contemporaneamente imporsi obblighi stringenti e costi pesantissimi da Green Deal. Delle due l’una. È da questa convivenza forzosa e dalla diversità delle regole del gioco che nasce l’evidente desertificazione produttiva della Ue.

L’Europa con il Green Deal ha pensato di guidare il mondo e, invece, è da sola e continua con arroganza testarda, a voler trasformare l’astrazione in regola cogente.

Solo ora (forse) si accorge della fragilità delle catene internazionali del valore e della necessità della sicurezza, perché essere efficiente non basta più.

In questo tempo magnetico occorre riflettere su un nuovo paradigma globale e non solo europeo capace di valorizzare il capitale sociale il quale, tuttavia, rischia moltissimo a causa dei molti mali che affliggono il mondo, primo fra tutti il bellicismo di ritorno.

Alla Conferenza di Parigi del 1946 si disse che il mondo era diventato sicuro per la democrazia; non fu così.

Tutto questo si pone in uno scenario reso ancora più problematico dalla verità che ciascuno è assolutamente convinto di detenere.

Dopo un lunghissimo lavoro tra Ministero dell’Ambiente e Associazioni di categoria, il Ministro, Pichetto Fratin, ha firmato il nuovo Dm sull’End of Waste dei rifiuti da costruzione e demolizione, abrogativo e sostitutivo del Dm 152/2022. Pare non vada bene neanche questo.

Accade spesso che il meglio sia nemico del bene, ma è anche così che il mondo si polarizza e si estremizza perdendo le sue tracce.