Rifiuti e terremoti: l’ossessione che produce fanatismo

L’Italia delle emergenze e della solidarietà si mobilita, compatta e spontanea, dinanzi alle grandi emergenze. Tra queste, quella atroce del terremoto. I relativi scenari, però, restano immutati, colmi fino alla nausea, di ritardi, inefficienza e oppressione burocratica. Una desolazione che si fa ricca della mancanza di visioni, di date, di progetti e di opere in uno spettacolo fatto di nulla.

In questa fenomenologia del tetro, le macerie da rimuovere rappresentano l’ostacolo più grande verso la normalizzazione dei territori.

24 agosto, 26 e 30 ottobre 2016. Tre terremoti che secondo il Cnr e l’Agenzia spaziale italiana hanno deformato un’area di oltre 1.000 chilometri quadrati. Stupefacente. Nelle quattro regioni colpite dal sisma del 2016 (Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo), Repubblica.it dello scorso 20 giugno denuncia la presenza del 92% delle macerie e Legambiente le stima in 2,4 milioni di tonnellate. Un incubo. Creato dalla burocrazia del rifiuto (solo un po’ mitigata da norme ad hoc’’) e dal fanatismo che, ormai, gli è sotteso insieme alla incapacità di gestire una seria scala di priorità.

Le conseguenze sono note a tutti.

Il post terremoto del 2016 (e prima ancora dell’Aquila del 2008) è una descrizione sottile della degenerazione morale che il fanatismo provoca, dove non c’è più possibilità per fare nulla. Il fanatismo discende dall’ignoranza e genera brutalità.

L’Italia che è stata capace di cambiare le definizioni comunitarie di produttore iniziale dei rifiuti e di rifiuto organico, non è ora capace di sottrarre le macerie del terremoto da tutti gli oneri burocratici che ai rifiuti si collegano anche per paura delle infiltrazioni mafiose.

Nessuno sviluppo del pensiero critico, dunque, ma solo la feroce applicazione di regole che, in quel contesto, hanno più il sapore di un racconto tormentoso e arreso che quello di una simmetria di armonizzati gesti.

Qualcuno dirà “Ci vuole pazienza”, ma senza una reale promessa di futuro, la pazienza diventa rassegnazione. Si rischia così di vivere in un perenne futuro anteriore dove avverrà qualcosa che si è già concluso.

Infatti, per arrivare a fare e mantenere reali promesse di futuro occorre avere senso di responsabilità e, se del caso, ammettere le proprie colpe.

E questo non va decisamente più di moda. Al pari di sentimenti come l’attesa e la (già indicata) pazienza, sua prossima vicina.

La loro assenza fa sì che non ci sia più margine ai desideri. Eppure, oggi è più che mai opportuno ridimensionare, ponendovi un argine, questo nostro bulimico desiderare. Il perché è presto detto: già nel 1949, Norbert Wiener (padre della cibernetica) anticipava che automazione e tecnologie (si parla oggi tanto di “civiltà delle macchine”) avrebbero ridotto il valore economico della manodopera. Di qui, disoccupazione e sottoccupazione avrebbero determinato la riduzione dei consumi (quindi verrebbe meno il perno di ogni rivoluzione industriale). Che faremo del tempo che le macchine ci lasceranno libero?

Già oggi abbiamo la precarizzazione del lavoro, pressoché privo di protezione e sottoretribuito.

Ne deriva l’ovvio impoverimento delle abilità richieste per lavorare e la perdita di rilevanza sociale di chi lavora.

Per non impazzire dobbiamo iniziare ora e ricominciare a considerare le categorie della qualità e del valore, rinnovando il legame con la nostra storia e la nostra cultura.

Un altro aspetto della bellezza, quella emozionante realtà da salvare, perché, per dirla con Tonino Guerra, “se salviamo la bellezza, salviamo noi stessi”. Non è la cultura del narcisismo, è la cultura della non rinviabile difesa del nostro orizzonte anche da chi, violandoli, disprezza una donna o brucia un bosco.