Greenwashing, la finzione verde e la inconfessata nostalgia di quando natura e progresso non si ferivano

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Tra fattori ESG, sostenibilità e “green” in tutte le salse, ecco servito il paradosso del nostro tempo: mentre la crisi climatica avanza, mai come oggi il linguaggio del potere si è tinto di verde. Aziende, governi, istituzioni, tutti ne parlano. Ma poi? È nel trucco della comunicazione che si cela il greenwashing, seducente e pericoloso come un serpente corallo che tende a costruire una positiva immagine pubblica approfittando della crescente sensibilità ambientale senza, però, modifiche reali di comportamenti e processi. È pericoloso perché inganna i consumatori, distorce la concorrenza tra aziende, rallenta la transizione ecologica e fornisce alibi politici per evitare interventi strutturali.

Nato negli anni ’80 per denunciare l’agire delle grandi catene alberghiere che invitavano a riutilizzare gli asciugamani “per salvare il pianeta” ma senza modificare il proprio impatto ambientale, oggi il greenwashing si è evoluto in forme più sofisticate e pervasive. La retorica ambientale poi fa la sua parte, con l’inevitabile dose di lagna che le appartiene in modo irriducibile.

Ma è anche una questione politica, perché la capacità di un’azienda di apparire sostenibile senza esserlo davvero rallenta l’adozione di politiche ambientali efficaci, mentre la crisi climatica richiede scelte rapide e radicali.

Se il mercato premia chi mente e non chi cambia davvero, viene alterata la competizione e scoraggiata l’innovazione.

Gli interessi economici e politici spesso si intrecciano: grandi aziende che finanziano campagne elettorali o gruppi di pressione riescono a ottenere normative blande e autoregolamentazioni inefficaci, lasciando ai cittadini il compito di “consumare meglio” piuttosto che intervenire sui reali centri di potere produttivo.

Dal petrolio alla moda, dal food alla tecnologia, gli esempi di greenwashing si moltiplicano. Le tattiche sono molteplici: etichette vaghe come “naturale” o “eco-friendly” prive di certificazioni indipendenti, comunicazioni ambigue o dati ambientali parziali, uso simbolico di iniziative “verdi” (come la piantumazione di alberi) che distolgono l’attenzione dall’impatto complessivo.

E allora, che fare? Se da un lato i cittadini si possono difendere con consumo critico e informazione, dall’altro il greenwashing si combatte davvero solo con regole chiare e trasparenti. L’Europa sta ragionando sulla cd. “direttiva green claims” sugli standard delle dichiarazioni con cui le imprese vantano le qualità ambientali dei propri prodotti. Intanto, dal 2026 sarà operativa la Direttiva 2024/825 sulla responsabilizzazione dei consumatori.

Osservato dalla prospettiva industriale, il tema del greenwashing pone una questione antica: il rapporto tra apparenza e sostanza, tra quello che si mostra e quello che realmente è. Già Platone, nel mito della caverna, ammoniva sul rischio di scambiare le ombre per la realtà, mentre Nietzsche ricordava come ogni valore umano (persino quello della virtù) possa essere strumentalizzato a fini di potere.

Se un’industria comunica il proprio impegno ecologico per convenienza e non per autentica convinzione, è un inganno o una forma necessaria di adattamento a nuovi valori collettivi?

C’è, infatti, qualcosa di profondamente umano nel desiderio di apparire migliori di ciò che si è. Anche le industrie, dietro a marchi, numeri e slogan, sono fatte di persone. E ogni persona, in fondo, anela al riconoscimento, alla speranza di essere parte di qualcosa di più grande, di migliore, di più giusto.

Quando un’azienda colora di verde i suoi prodotti, quando racconta storie di alberi piantati e di futuro sostenibile, può anche mentire a se stessa, ma (come spesso accade nei cuori degli uomini) in quella finzione si nasconde una nostalgia autentica di quando natura e progresso non si ferivano.

In altra prospettiva, il greenwashing, allora, è forse il segno di un’anima industriale che ancora fatica a essere sincera, ma intuisce che il futuro deve essere diverso. È il tentativo impacciato di scrivere poesie quando si è abituati a parlare per bilanci e strategie. È una bugia che, se ascoltata con indulgenza, può diventare verità, perché ogni desiderio di bellezza, anche se nato per convenienza, merita di essere coltivato.

Persino la finzione, se ripetuta abbastanza a lungo, può trasformarsi in desiderio autentico.

Paola Ficco