Gestione rifiuti e repressione: occorre agire sulle condotte criminali e non sulle attività di impresa. Il ruolo sottovalutato della P.A. per la prevenzione
Sono ormai passati più di ventiquattro anni da quando la disciplina sulla gestione dei rifiuti ha fatto irruzione sulla scena economica, politica e sociale italiana. Un tema che ha patito un inizio di profonda sottovalutazione. E ancora oggi non appare ampiamente compreso, soprattutto da chi vagheggia di un non precisato Eden dell’economia circolare senza comprendere che la gestione dei rifiuti rappresenta il vulnus del nuovo accadere. E così la gestione dei rifiuti resta un problema ancora sottovalutato e, ancora non di rado, osteggiato in termini di investimenti e di comprensione a favore di altre e molteplici realtà.
È quella della gestione dei rifiuti una rivoluzione iniziata ma non ancora compiuta perché molto è stato fatto ma molto resta ancora da fare. La traccia dei decenni trascorsi, tuttavia, ha generato la possibilità del cambiamento. Un cambiamento che passa per strade obbligate e fondamentali come il sottoprodotto e l’End of Waste, cioè gli strumenti attraverso i quali la materia che ha costruito il passato è chiamata a realizzare il presente.
Una via larga ma al contempo stretta perché la invasiva definizione di “rifiuto” (sempre la stessa e introdotta dalla direttiva 75/442) costringe a una valutazione caso per caso tra rifiuto sì e rifiuto no.
La gestione dei rifiuti è un’attività complessa dove confluiscono saperi economici, giuridici, tecnologici e scientifici. C’è allora bisogno di una Pubblica Amministrazione forte e competente, capace di anticipare sul terreno politico-amministrativo i profili con cui confrontarsi.
È questa una funzione di effettiva tutela in chiave preventiva. Diversamente, il diritto penale diventa lo strumento ordinario di gestione dei pericoli connessi allo svolgimento di questa e di altre attività complesse. Quindi, non è l’inasprimento delle (già pesanti) sanzioni penali che preserva dall’inquinamento da rifiuti bensì sono la forza, il coraggio e la competenza della Pubblica Amministrazione. La criminalità organizzata è un’altra storia.
È questo uno dei profili la cui comprensione non traspare dalla lettura del Disegno di legge cd. “Terra mia” (di iniziativa dei Ministeri dell’Ambiente e della Giustizia diramato a settembre 2020 ma non ancora approvato dal Consiglio dei Ministri per essere poi sottoposto al dibattito parlamentare) che amplia il catalogo dei reati ambientali “presupposto” della responsabilità amministrativa degli enti di cui al Dlgs 231/2001 e inasprisce più d’una delle sanzioni introdotte dalla legge sugli “ecoreati” (legge 68/2015) È il caso della fattispecie colposa dei delitti di inquinamento e di disastro ambientale.
Quindi, al pari della citata legge sugli “ecoreati”, anche “Terra Mia” non distingue tra l’agire della criminalità organizzata in materia ambientale e quello di chi, pur operando nel rispetto degli standard di legge nell’esercizio dell’attività di impresa può incorrere, a titolo di colpa, in violazioni di norme a tutela dell’ambiente. Continuare a non valorizzare la differenza conduce alla conseguenza inevitabile di rendere inaccettabile il rischio di impresa scoraggiando investimenti di cui il paese, ora più che mai, ha bisogno.
Ora come allora, occorre agire sulle condotte criminali ma non sulle attività di impresa. L’innegabile esigenza di una più efficace tutela dell’ambiente deve essere coordinata con gli obiettivi di politica industriale per recuperare competitività. Una logica punitiva alla quale neanche le cd. “imprese green” possono sottrarsi. Una sorta di responsabilità oggettiva che si scatena per il solo fatto che le imprese producono.
La legge 68/2015 ha previsto la punibilità anche a titolo di colpa dei delitti di inquinamento e disastro ambientale. Si tratta di una scelta inadeguata e grave se si considera che tali fattispecie colpose sono punite anche a titolo omissivo per inosservanza di indefiniti precetti, anche amministrativi di rango regionale. A tutto svantaggio del principio di tassatività della fattispecie punitiva.
“Terra mia” potrebbe offrire l’occasione per migliorare, ma non sembra orientato in tal senso.
Anziché stringere le maglie delle sanzioni, un Legislatore capace di essere tale dovrebbe prevedere un sistema repressivo premiale, deflattivo del procedimento penale in relazione agli interventi di ripristino ambientale realizzati dall’indagato. Infatti, il degrado ambientale non si risolve con il carcere, né con la distruzione di asset produttivi mediante lo strumento della confisca e del “sistema 231” ma con il recupero del degrado. La nevrosi non deve minare le utopie.
Pertanto, se è vero che occorre rieducare i sistemi produttivi a produrre consapevolmente nel rispetto dell’ambiente, è anche vero che il processo di rieducazione deve riguardare anche il legislatore affinché, smettendo di essere “sceriffo”, cessi l’inquietudine persecutoria e valorizzi l’economia di chi produce rifiuti e di chi li gestisce. In altri termini, occorre mettere da parte impeti contemporanei senza confondere la propria personale memoria con la oggettività delle evidenze economiche del paese e la sua storia di impresa. Del resto, ad esempio, i rifiuti prendono fuoco non perché non ci siano le sanzioni (che esistono e sono puntualmente afflittive) ma solo perché, dopo la chiusura del mercato cinese, le raccolte differenziate non hanno più uno sbocco commerciale. Se ci limita a punire (ammesso che ci si riesca) senza prevenire, i rifiuti continueranno a prendere fuoco soprattutto in un periodo economicamente e socialmente difficile come questo e come quello che ci aspetta, dove la disoccupazione aumenta e gli scrupoli per un innesco retribuito diventano sempre di meno.